ROD NORDLAND GLI AMANTI – Romeo e Giulietta in Afghanistan (Mondadori Editore -Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani)

Rod Nordland, corrispondente estero del New York Times, è stato per oltre tre anni responsabile della redazione di Kabul. Membro di un team insignito del premio Pulitzer per il giornalismo nazionale negli Stati Uniti e finalista allo stesso premio per la categoria giornalismo internazionale, ha ricevuto numerose onorificenze, fra cui due premi George Polk e svariati riconoscimenti dell’Overseas Press Club. Questo è un estratto dal suo libro, con una parte del primo capitolo “Sotto gli occhi di Buddha”.
PROLOGO
Era una giornata limpida e fredda di febbraio quando, conclusa la nostra prima intervista alla giovane coppia di innamorati più famosa dell’Afghanistan, ci siamo recati all’aeroporto di Bamiyan, che in realtà è soltanto una larga pista sterrata con vista panoramica sulle nicchie vuote dove un tempo si trovavano i famosi grandi Buddha scolpiti nella roccia. Una recinzione di rete metallica circondava alcuni container, di cui uno adibito a sala d’attesa e un altro a ufficio, e sulla pista atterravano solo un paio di voli la settimana, delle Nazioni Unite e della East Horizon Airlines, una compagnia aerea privata afghana proprietaria di alcuni vecchi aerei russi a turboelica, per cui non c’era bisogno di infrastrutture aeroportuali vere e proprie. Ricordo di essermi seduto nel container sala d’attesa accanto a un bukhari, una di quelle stufe di metallo, generalmente arrugginite, che bruciano di tutto – legna, trucioli, carbone, gasolio – per cercare di scaldarmi mentre scrivevo il mio primo articolo per il New York Times sulla giovane coppia. Che bella storia, pensavo, per quanto triste e quasi sicuramente destinata a concludersi tragicamente. Immaginavo già che l’articolo successivo sarebbe stato anche l’ultimo e avrebbe raccontato che la famiglia della ragazza una notte l’aveva rapita dalla casa rifugio o che lei, spinta dalla solitudine, dalla disperazione o da un’ingenua disponibilità a credere nelle promesse dei fratelli, aveva seguito l’esempio di tante altre giovani afghane che lasciavano fiduciose le case di accoglienza per tornare alle loro famiglie e non venivano mai più riviste vive. Tutti ci saremmo profondamente indignati e poi avremmo voltato pagina. Di solito le vicende di questo tipo si concludono così. Ma mi sbagliavo, e quello era soltanto l’inizio.
SOTTO GLI OCCHI DI BUDDHA
Si chiamava Zakia. Poco prima di mezzanotte, nella gelida vigilia del Capodanno persiano del 1393, sdraiata completamente vestita su un materasso sottile steso sul pavimento di cemento, rifletteva su quel che stava per fare. Aveva addosso tutti i suoi strati coloratissimi – un vestito lungo sopra i legging, uno sbrindellato maglione rosa e una lunga sciarpa arancione e viola – ma non il cappotto, perché non lo possedeva. L’unica cosa che non si era messa erano le scarpe con punta aperta e tacco alto, perché in Afghanistan nessuno porta le scarpe in casa; erano per terra accanto al materasso, ordinatamente posate vicino alla piccola foto di Ali, il ragazzo di cui era innamorata. Non era la tenuta più adatta per una fuga come quella che aveva in programma, che prevedeva di scavalcare un muro e dileguarsi sui monti, ma presto si sarebbe sposata e il giorno delle nozze voleva essere elegante. Era il 20 marzo 2014 e non era la prima volta che Zakia decideva di fuggire dalla casa rifugio di Bamiyan, che era stata la sua salvezza ma anche la sua prigione negli ultimi sei mesi, dal giorno in cui era scappata dalla sua famiglia nella speranza di sposare Ali. Alla fine, però, le era sempre mancato il coraggio. Anche due sue compagne di stanza erano sveglie, ma aspettavano che fosse lei a muoversi per prima. Zakia era terrorizzata e non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di andarsene, ma sentiva che il tempo stava scadendo e non ci sarebbe stata un’altra occasione. Quello che si accingeva a fare era un passo importante, benché avesse compiuto diciotto anni e fosse quindi maggiorenne, si trovasse nella casa rifugio per sua libera scelta e non per coercizione e la legge afghana le consentisse di andare dove voleva. Ma spesso tra la legge e la realtà c’è differenza, e questo è più vero che mai in Afghanistan. Zakia sapeva bene che il passo che stava per compiere avrebbe cambiato non solo la sua vita e quella di Ali, che aspettava una sua telefonata sull’altro versante della valle di Bamiyan, ma anche quella della maggior parte delle persone che li conoscevano. Suo padre, Zaman, e sua madre, Sabza, i suoi numerosi fratelli e i suoi cugini maschi avrebbero abbandonato il lavoro nei campi per dedicarsi a darle la caccia. Avrebbero giurato pubblicamente di uccidere sia lei sia Ali, rei di essersi innamorati. Il padre di Ali, Anwar, sarebbe stato costretto a indebitarsi al punto da non poter lasciare nulla in eredità al figlio primogenito e la famiglia avrebbe dovuto rinunciare per anni alla maggior parte della produzione agricola. Altri sarebbero rimasti coinvolti in maniere imprevedibili. Una donna di nome Fatima Kazimi, direttrice dell’ufficio provinciale del ministero per gli Affari femminili a Bamiyan, che aveva salvato Zakia dai famigliari pronti a ucciderla, sarebbe fuggita in esilio in Africa. Shmuley Boteach, un rabbino del New Jersey che quella notte non sapeva nemmeno come si pronunciasse il nome di Zakia, si sarebbe appassionato al suo caso al punto da fare lobbying ai massimi livelli del governo americano perché venisse aiutata. Zakia, poverissima e analfabeta, che non sapeva neppure contare fino a dieci e non aveva mai visto un televisore in vita sua, sarebbe diventata il volto televisivo femminile più noto dell’Afghanistan, l’idolo di tutte le giovani afghane che sognavano di sposare l’uomo che amavano anziché quello scelto per loro dalla famiglia, che magari non avevano neanche mai visto. Per gli anziani conservatori che reggevano quella società patriarcale, invece, Zakia sarebbe diventata la donna perduta che mette a repentaglio l’ordine stabilito con la sua condotta, derivante dalla deplorevole interferenza straniera. E qui sono entrato in gioco io, perché gli articoli1 su Zakia e Ali che ho scritto nel 2014 per il New York Times li hanno resi famosi, suscitando le ire dell’establishment conservatore afghano. All’epoca non lo sapevo, ma sarei diventato ben presto la loro unica – o quasi – speranza di salvezza e mi sarei lasciato coinvolgere al punto da mettere a rischio i miei valori e la mia etica professionale. Ma quella notte, vigilia dell’equinozio di primavera e del Capodanno persiano, ero all’oscuro delle loro intenzioni e mi trovavo in un’altra parte dell’Afghanistan, a tre giorni di viaggio. Non pensavo affatto a Zakia e Ali, né loro a me. Ero stato a trovarli a Bamiyan soltanto un mese prima e così, quando venni a sapere che erano fuggiti, non mi fu difficile immaginare la scena. Per qualche motivo – forse perché parla di un amante impaziente che aspetta l’arrivo dell’amata – mi vennero in mente alcuni versi di una poesia di Robert Browning, L’amante di Porfiria: Presto scese la pioggia questa sera presto si svegliò il vento scontroso strappò le cime degli olmi per dispetto e fece del suo peggio per irritare il lago: l’ascoltavo con il cuore sul punto di spezzarsi. Al posto degli olmi, bastava mettere le betulle bianche che in duplice filare costeggiavano le strade che dal versante sud della valle di Bamiyan, dove si trova la casa rifugio, scendevano verso il fiume che la attraversa. Alte e sottili, le betulle ricordano gli affusolati cipressi della campagna toscana, con la differenza che le loro foglie dal rovescio argentato e la corteccia bianca scintillano come schegge di mica sotto le stelle. Bamiyan è il capoluogo dell’omonima provincia, in un altipiano a un’estremità della catena dell’Hindukush, fra valli verdeggianti e montagne spoglie e impervie, lontano da tutto. La città si sviluppa su due ampi tratti pianeggianti nel versante sud della valle; nel più basso si trova la parte vecchia, con case di fango non molto diverse da quelle costruite migliaia di anni fa, inframmezzate da altre più nuove di calcestruzzo; le porte di metallo dei negozi nel bazar sono dipinte in colori primari e, poco più in basso, scorre il fiume, che la sera della fuga di Zakia aveva ancora neve sulle rive e lastre di ghiaccio al centro. A sud, un centinaio di metri più in alto, c’è il pianoro dove si trovano il piccolo aeroporto con il suo terminal fatto di container e un’accozzaglia di edifici recenti, in muratura, adibiti per la maggior parte a uffici pubblici e di organizzazioni non governative. Questi ultimi sono stati costruiti grazie a fondi stranieri lungo strade asfaltate di fresco, una meraviglia dell’ingegneria finanziata dai governi del Giappone e della Corea, drittissime e liscissime, ma che non portano da nessuna parte. Fra questi edifici c’è anche la casa rifugio da cui Zakia si preparava a fuggire. A Bamiyan l’energia elettrica arrivava per quattro ore al giorno a dir tanto, e a quell’ora tarda non ce n’era proprio. Dalla città oscurata non proveniva alcun bagliore e l’unica luce, perciò, era il fioco riflesso del firmamento. In serata era caduta una fredda pioggerellina sottile che verso mezzanotte, con l’abbassarsi della temperatura, si era trasformata in nevischio. La strada fiancheggiata dalle betulle unisce il fondovalle al pianoro dove le enormi nicchie scavate nel fianco della montagna che ospitavano le grandi statue del Buddha, distrutte dai talebani nel 2001, sono impressionanti anche al buio e da tre chilometri di distanza. Quelle cavità scure e vuote, inconfondibili, uniche al mondo, tolgono il fiato. Le pareti a picco sono appena a nord del fiume. La statua di Nelson in Trafalgar Square scomparirebbe se inserita nella più piccola, a est, dove una volta si trovava il Buddha detto Shahmama; nella più grande, a ovest, che conteneva il Buddha detto Solsol, troverebbe comodamente posto la Statua della Libertà. Opera appassionata di generazioni e generazioni di antichi artigiani, che vi lavorarono con martelli, picconi e scalpelli, le statue di Solsol e Shahmama sono state per secoli i due Buddha in posizione eretta più alti del mondo. Avevano quattordici secoli quando i talebani le distrussero schierandovi di fronte i loro carri armati e aprendo il fuoco, per poi completare la devastazione con cariche di esplosivo ad alto potenziale. Durante il loro regime, i talebani imperversarono nella valle uccidendo migliaia di hazara, spinti dall’odio razziale (gli hazara sono di origine asiatica, anziché caucasica) e religioso (pur essendo musulmani, sono sciiti e non sunniti). Non poterono però distruggere l’intera parete di arenaria, di un colore oro dorato che riluce anche nell’oscurità ed è di per sé uno spettacolo che lascia a bocca aperta. Intorno alle due enormi nicchie ci sono numerose grotte più piccole, collegate da una rete di passaggi e cunicoli in cui si trovavano celle di monaci e santuari, alcuni grandi come la navata di certe basiliche europee, altri piccolissimi, appena sufficienti ad accogliere un eremita. La parete rocciosa stessa sembra essere stata levigata da mani antichissime che, quasi millecinquecento anni fa, la trasformarono in una sorta di tela in cui disegnare un labirinto di luoghi di culto. Tutto questo rappresenta qualcosa di più di un semplice sfondo alla vicenda di Zakia e Ali che, da piccoli, quando i talebani invasero la zona, fuggirono sulle montagne con le famiglie, per ritornare a valle una volta terminati i massacri. Sono stati anche gli avvenimenti accaduti anticamente in questa parte del mondo, e non solo quelli più recenti, a fare dei due ragazzi ciò che sono, a plasmare il destino contro cui si sono ribellati e il futuro che cercavano di costruirsi in quella notte di fine inverno, alla vigilia di un nuovo anno persiano. In modi strani e del tutto imprevisti, i talebani avevano sovvertito il mondo di Zakia e Ali, e prima la loro sconfitta e poi la loro funesta riscossa avevano influito in maniera determinante sulla storia dei due innamorati. Senza i talebani, non ci sarebbe stato l’intervento degli occidentali; senza l’intervento degli occidentali, quella di Zakia e Ali sarebbe stata una favola brevissima con un finale sanguinoso. I signori della guerra che hanno combattuto contro i talebani e poi hanno contribuito alla formazione del governo afghano che li ha sostituiti al potere, nei confronti delle donne erano uguali se non peggiori dei talebani stessi. Solo grazie alle pressioni dei Paesi occidentali sulla parità di diritti sono state adottate una costituzione e leggi che, almeno sulla carta, tutelavano le donne. Dal punto di vista culturale, era tutta un’altra faccenda. In questi ultimi anni, quando i talebani hanno minacciato di riprendere il potere, i leader afghani e i loro alleati occidentali sono stati sempre meno disposti a condurre una battaglia culturale contro i conservatori che appoggiano il governo. Di conseguenza, i progressi maggiori sul fronte dei diritti delle donne sono stati realizzati negli anni immediatamente successivi alla caduta dei talebani, mentre ben poco è stato fatto dopo il 2012, quando i talebani hanno ricominciato a rappresentare un pericolo. È grazie all’intervento degli occidentali che Zakia ha, per legge, il diritto di scegliere chi sposare e di scappare con lui, ed è la pavidità occidentale che ha lasciato lei e le sue connazionali in un limbo di incertezza culturale e ostilità. Zakia è tagika e Ali hazara; lei è sunnita e lui sciita. La famiglia di Zakia era contraria al matrimonio per motivi culturali, etnici e religiosi. Inoltre, scappando di casa, la ragazza ha infranto un altro importante tabù. Nella cultura afghana la moglie è proprietà del marito, la figlia del padre, la sorella del fratello. Sono gli uomini a decidere con chi si devono sposare. Scappando con un giovane che non era stato scelto dai suoi, Zakia non solo ha sfidato il loro volere, ma li ha derubati di qualcosa che essi considerano loro legittima proprietà.