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Fotografia

FRANCO FONTANA: QUELLO CHE HO IMPARATO SULL’ARTE, LA CREATIVITÀ E LE IMMAGINI

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LO ZEN E LA FOTOGRAFIA
La mia forma preferita è il cerchio: contiene tutto eppure è vuoto. Filosoficamente parlando, ha una caratteristica rara: come ogni cosa ha un inizio e una fine, solo che nessuno li troverà mai. Eraclito, che non giocava in una squadra di calcio, nel suo trattato Sulla natura ha scritto che coincidono. Affascinante, vero? Anche per questo il cerchio è la forma perfetta. La filosofia zen – che di perfezione se ne intende – vi identifica la condizione originaria, quando lo spirito è presente dappertutto, senza bisogno di sostegno. In Lo zen e il tiro con l’arco, si dice: “Simile all’acqua che riempie uno stagno ma è sempre pronta a defluirne, lo spirito può ogni volta agire con la sua inesauribile forza, perché è libero, e aprirsi a tutto perché è vuoto”. “Vuoto”: a noi occidentali fa paura anche solo la parola; figuriamoci il concetto. È sbagliato. Il vuoto non è la camera del diavolo: è lo spazio della crescita. Solo facendo il vuoto dentro di voi potrete conquistare liberà a sufficienza per imboccare una strada davvero vostra, senza fardelli né pesi morti. La mente libera contiene tutto, come il cerchio. Dovete fare in modo che contenga anche la macchina fotografica: la macchina non deve essere nelle vostre mani, ma nel vostro pensiero e nel vostro cuore. Deve essere parte di voi, costituire con voi un’unità inscindibile, perché solo quando la macchina fotografica sarà nel fotografo e il fotografo nella macchina fotografica potranno fluire creatività e indipendenza. Io faccio così quando fotografo. A volte mi succede di trovare un paesaggio così irresistibile che dimentico tutto il resto. Lascio andare desideri, rancori, aspettative, la fretta. Lascio andare l’idea del passato e quella del futuro e rimango solo io, con la mia macchina e il paesaggio. Me ne lascio permeare: io divento il paesaggio e il paesaggio diventa me. Lo vivo. Permetto al paesaggio di riempire il mio vuoto, ne gioisco, e solo allora scatto. Mi piace dire che il paesaggio attraverso di me si fa l’autoritratto. Questolibro raccoglie le riflessioni nate in più di trent’anni di corsi di fotografia. Ho scelto di cominciarlo parlando proprio del cerchio perché la sua forma disegna un percorso simile a quello che vi suggerirò di compiere: partire per poi ritornare a voi stessi, accettando di fare il vuoto dentro di voi, per accogliere una verità che vi assomiglia più di una cartolina e imparare a significarla al meglio.

FOTOGRAFARE È UN ATTO DI CONOSCENZA
Quando qualcuno mi chiede che macchina fotografica uso, mi picchietto la testa con un dito, sorrido e rispondo: “Questa”. La macchina da sola non fa niente. Nessuna attrezzatura costosa e nessuna tecnologia, per quanto avanzatissima, avranno mai il potere che ha lo sguardo, inteso come frutto del pensiero e del cuore. Lo sguardo ridisegna la realtà; la macchina fa soltanto clic, tanto quanto la penna, da sola, disegna semplicemente un tratto. La mia la uso come un arco: punto, inquadro e colpisco; ma sono io a decidere dove puntare, a scegliere cosa inquadrare, come e, soprattutto, perché. C’è poco da fare: scattare è una questione di pensiero. Bisogna fotografare quello che si pensa, non quello che si vede. Si scatta con la mente, non con le dita. Le immagini sono un’emanazione del fotografo, traducono in un linguaggio universalmente comprensibile la sua interpretazione del mondo. Con “immagini” non intendo le illustrazioni. Per quanto l’ennesima veduta di Venezia possa essere perfetta (con la luce giusta, il contrasto giusto, i colori giusti), rimarrà sterile e muta se il suo autore non è stato prima disposto a scendere nelle proprie viscere e a scoprire cosa, di sé, intende comunicare. Bando alle cartoline, sto parlando di fotografie, una forma d’arte. L’artista non ritrae la realtà: la possiede, la “violenta” per piegarla al suo pensiero. Interpretandola, crea un mondo. Voglio proporvi un esempio. Anni fa, alcuni amici sono andati in vacanza in Provenza. Al ritorno, mi hanno detto: “Franco, ci dovevi essere, abbiamo visto i tuoi paesaggi!”. I miei paesaggi? I paesaggi della Provenza c’erano ben prima di me e ci saranno dopo: perché li attribuivano proprio a me? Perché prima delle mie fotografie, evidentemente, nessuno li aveva mai interpretati in quel modo, nessuno aveva conferito loro quella specifica identità, e i miei amici non li avevano mai visti così. Questo significa che il paesaggio da solo “non esiste”. Il paesaggio non sa di esserci: è l’artista a testimoniarlo. Quando affermo che la fotografia è un atto di conoscenza, intendo proprio questo: l’artista, fotografando, inventa soggettivamente la sua realtà. Vladimir Majakovskij diceva: “L’arte non è lo specchio in cui riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo”. Se questo non accade, se nessuno impugna quel martello e forgia la realtà, la realtà non esiste. Come si verifica invece l’altro processo? Come, cioè, l’artista arriva a significare se stesso? Grazie a una particolare sinergia: solo annullandosi davanti al suo soggetto, dissolvendosi nella simbiosi con esso, il fotografo crea un’immagine significante, una foto di pensiero. Parlo di “foto di pensiero” con cognizione di causa, perché quello che finisce impresso nell’immagine non è un semplice ritratto bidimensionale di ciò che l’artista aveva davanti, ma una rappresentazione dell’artista stesso. Prendiamo una delle mie fotografie, quella scattata a Baia delle Zagare. È del 1970, avevo ancora qualche capello nero. In quel periodo andavo a caccia di foto con alcuni cari amici che purtroppo non ci sono più. Partivamo per un weekend, ci alzavamo all’alba e andavamo in giro fino al tramonto. A farci da guida in Puglia era Renzo Cambi, un modenese che abitava a Foggia da prima della guerra. Ciascuno ha poi visto le cose a suo modo, ma a condurci sui “luoghi del delitto” è stato lui. Secondo il New York Times, Baia delle Zagare è una delle coste più belle del mondo. È proprietà di un privato che negli anni Settanta, al tempo di questa fotografia, aveva appena aperto un albergo. Prima di scendere in spiaggia, ci siamo fermati su un balconcino. Eravamo in quattro ma, di fronte alla medesima materia prima, ciascuno di noi ha scattato in modo diverso. Cambi fece un paesaggio in bianco e nero. Era un fotoamatore pluridecorato: con i suoi paesaggi, tutti diversi dai miei, aveva vinto un sacco di premi. Gli altri hanno ripreso chi la donna in bikini sdraiata al sole, chi il faraglione davanti alla costa. Io ho scattato così. Ho trovato ciò che avevo dentro, togliendo il superfluo per  leggere il necessario. Non ho fatto tante fotografie: solo una, e quell’una potevo farla solo io, perché mi apparteneva. Questa immagine è una delle icone del mio lavoro. Finì in un volume che riuniva i miei paesaggi, Skyline, uscito nel 1978 sia in Italia per Punto e Virgola, fondata da Luigi Ghirri, sia in Francia per Contrejour, guidata da Claude Nori. In Francia Skyline ebbe un notevole successo, tanto che venne ristampato a una sola settimana dall’uscita. Una funzionaria del ministero della Cultura francese vide la foto, mi chiamò per dirmi che, secondo lei, esprimeva perfettamente lo spirito del loro Paese, e mi chiese il permesso di utilizzarla su un manifesto per la diffusione del “pensiero francese”. Quel manifesto (insieme ad annessi e connessi, ricordo con sicurezza un catalogo) è stato distribuito in tutte le ambasciate e i consolati di Francia. Più avanti, la stessa foto è stata utilizzata anche sulla copertina di un libro di filosofia, A Companion to Environmental Philosophy di Dale Jamieson. Non è un caso che questo destino sia toccato proprio a quella foto. È stata scattata sul Gargano, ma non ritrae le coste pugliesi. È un archetipo, un paesaggio assoluto, slegato dalla verità geografica. A fare la differenza è il pensiero sotteso all’immagine: i francesi l’hanno capito e l’hanno scelta per rappresentare, guarda caso, proprio il loro “pensiero”. (Brano tratto dal libro di Franco Fontana, Fotografia creativa, Mondadori Editore)

 

Franco Fontana, nato a Modena nel 1933, è uno dei protagonisti assoluti della fotografia italiana. Comincia a fotografare nel 1961, in modo amatoriale, collaborando con il Circolo Fotografico Modenese. Da subito trascura il bianco e nero in favore del colore, che diventerà la sua cifra distintiva. Attraverso una inedita analisi del paesaggio naturale e strutturato, Fontana ha infatti “reinventato” il colore come mezzo espressivo: i suoi paesaggi sono quasi metafisici e si situano al confine tra rappresentazione e astrazione. Il suo primo portfolio, corredato da un testo di Piero Racanicchi, viene pubblicato da “Popular Photography” nel 1964, mentre la sua prima mostra personale si tiene a Modena nel 1968, presso la Galleria della Sala di Cultura, con presentazione di Piero Racanicchi, Franco Vaccari, Candido Bonvicini e Claudio Altarocca; ma l’artista ha già esposto (alla terza Biennale Internazionale del Colore di Vienna, nel 1963, e alla Società Fotografica Subalpina di Torino, nel 1965). Da allora, Franco Fontana ha esposto in tutto il mondo, partecipando a oltre 400 mostre, tra collettive e personali. Tra le location più significative, citiamo gli Scavi Scaligeri di Verona, la GAM di Torino, il Metropolitan Museum di Tokyo, il Palazzo Reale di Milano, il Museo de Arte di Buenos Aires e la Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Le sue opere sono state acquisite da oltre 50 musei, fra i quali ricordiamo il Musée d’Art Moderne di Parigi, il Victoria & Albert Museum di Londra, il Fine Arts Museum di San Francisco, l’International Museum of Photography “George Eastman House” di Rochester, il Metropolitan Museum di Tokyo e la National Gallery di Pechino. Dal 1978, anno in cui, su richiesta del fondatore Lucien Clergue, tiene il suo primo workshop a Les Rencontres d’Arles, Fontana ha diretto il suo seminario di fotografia in tre continenti (Europa, America e Asia), su richiesta dei più celebri festival e istituzioni. Tra gli altri, ricordiamo il Guggenheim Museum di New York, l’Institute of Technology di Tokyo, l’Accademia delle Belle Arti di Bruxelles, l’Università di Toronto, il Politecnico e la Visual School di Torino, la Galleria d’Arte Rondanini e l’Università Luiss di Roma. Dal 1992 è direttore artistico del Toscana Foto Festival, che si tiene ogni anno a Massa Marittima (GR). Per mantenere vivo il rapporto con i suoi allievi e dare al loro lavoro una chance di visibilità, organizza periodicamente la mostra collettiva Fontana & Quelli di Fontana, per la quale seleziona i migliori tra i progetti che gli sottopongono gli studenti del suo workshop. Nel 2006 la facoltà di Architettura del Politecnico di Torino l’ha insignito della laurea honoris causa in Design del prodotto ecocompatibile. Tra i vari premi che ha ricevuto, impossibile non citare il XXVIII Ragno d’Oro, Premio per l’Arte dell’Unesco (1984), il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio  dei Ministri (1989), The 150 Years of Photography Photographer Award della Photographic Society of Japan (1990), il Premio FIAF, con il quale la Federazione Italiana Associazioni Fotografiche l’ha nominato Maestro Fotografo Italiano (1995), e l’onorificenza di Commendatore della Repubblica per meriti artistici (2000). Per diversi anni Fontana ha messo il suo lavoro artistico al servizio della pubblicità, firmando campagne per aziende come Fiat, Volkswagen, Volvo, Piaggio, Ferrovie dello Stato, Sony, Canon, Kodak, Snam, Versace, Hermès e numerosi altri marchi. Ha inoltre collaborato con tutte le maggiori riviste e quotidiani, tra i quali ricordiamo “Vogue America”, “Vogue France”, “The New York Times”, “il Venerdì di Repubblica”, “Sette del Corriere della Sera”, “Panorama”, “Epoca”, “Class” e “Frankfurter Allgemeine”. Ha pubblicato oltre 60 libri, tra i quali evidenziamo le monografie Retrospettiva, con testi di Allan D. Coleman e Giuliana Scime (Logos, Modena 2003), e Franco Fontana. Full Color, con testo di Denis Curti (Marsilio, Venezia 2014).

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