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Sapori

IL RIGORE E LA CONTINUITÀ

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Stefania Moroni, figlia di Aimo e Nadia, prosegue l’attività di ricerca e sperimentazione trasformando il celebre ristorante in un luogo di arte, cultura e convivialità. Da qui la gastronomia italiana ha iniziato ad elevarsi a livello internazionale. di Bruno Quiriconi

 

Quando Aimo è arrivato a Milano da Pescia, un piccolo centro toscano vicino a Lucca e Pistoia – famoso per la raccolta dei garofani -, aveva un sogno: aprire un ristorante e trasformare il cibo in un mezzo per esprimere la sua filosofia di vita. Attraverso un piatto di carne o di pesce, una pasta o un dessert anelava al desiderio di trasmettere le sue emozioni, la sua ricerca costante delle migliori materie prime presenti nel territorio italiano, il rigore nel considerare la cucina un luogo per sperimentare, accogliere il visitatore e conquistarlo con il suo gusto. Col passare degli anni, anche grazie all’aiuto fondamentale della moglie Nadia (anche lei toscana, di Chiesina Uzzanese) il suo ristorante ha iniziato il suo decollo verso le alte sfere della gastronomia internazionale: è stato – in assoluto – il più premiato, venerato e citato dai critici specializzati con riconoscimenti dalle guide più rinomate. C’è qualcosa di diverso nell’animo di Aimo rispetto alla lunga ondata generazionale di ristoratori toscani: la volontà di trasformare il pranzo o la cena in un’esperienza quasi mistica. Provare per credere. Ogni ingrediente è selezionato da una lunga filiera controllata e aggiornata quotidianamente, cucinato con impegno e dedizione, con un riguardo sulle ultime scoperte della scienza alimentare e con l’impegno di esaltare i sapori e la presentazione sul piatto del cibo. Tutto questo poteva essere una parabola discendente, diventando un ricordo per chi ha assaporato almeno una volta le pietanze di Aimo e Nadia. E, invece, grazie alla figlia Stefania, la storia continua e si evolve in un canovaccio di installazioni d’arte, seminari culturali, presentazioni e conferenze, musica, letteratura uniti alla tradizione dei genitori. Il risultato, oggi, è Il luogo di Aimo e Nadia, ubicato sempre nella periferia milanese per scelta di Stefania; con due giovani Chef all’altezza del mentore e uno staff di prim’ordine. Non è stato facile, come ci racconterà in seguito Stefania, portare avanti un progetto rinnovandolo e agganciandolo alla contemporaneità: lei è riuscita grazie ai suoi studi, alla sua intraprendenza e alla volontà di inserire la sua personalità e i suoi interessi all’interno dell’attività dei genitori. L’esempio più significativo è l’installazione-composizione presente all’interno e alla facciata esterna del “luogo”, “una stratificazione di emozione e pensiero” curata dall’artista e scienziato Paolo Ferrari, parte integrante dell’esperienza cibo-mente. Con Paolo Stefania ha immaginato ogni dettaglio all’interno del locale, piccoli frammenti studiati per impreziosire lo sguardo e lo stato d’animo dl commensale. Gli spunti artistici e letterari sono elaborati al Centro studi Assenza coordinato dallo stesso Ferrari. “Chi siamo oggi?”, inizia così l’intervista a Stefania, “Questo è il luogo, lo spostamento del nome è significativo: un raro esempio di continuità – ad alti livelli – nell’ambito della ristorazione. Siamo la terza generazione, sempre nella stessa location – e non ci muoveremo mai da qui per scelta -, perché qui c’è una storia, un radicamento, un humus. Siamo inseriti nell’attualità della cucina contemporanea pur con le nostre radici. Oggi siamo un team – ci ho lavorato dieci anni per ottenerlo -, ho dovuto dimostrare sul campo che potevo farcela. Fabio Pisani e Alessandro Negrini sono i nostri due Chef, Nicola Dell’Agnolo è il maître in sala. La sfida vinta è stata quella di poter dare uno spazio a dei giovani (gli Chef hanno 37 anni entrambi) e nello stesso tempo non perdere l’identità che i miei genitori avevano costruito. Questa identità è spesso confusa con tradizione, un termine abusato e non congruo per descrivere la cucina di Aimo: ogni piatto veniva – ed è tutt’oggi – preparato sempre con una novità, mai uguale al precedente; anche la trippa, ad esempio, veniva arricchita con un nuovo ingrediente oppure cucinata a seconda della fantasia del momento. In questo modo alziamo sempre l’asticella: convincere il cliente a variare sempre le sue aspettative rispetto al piatto tradizionale.

Quando è stato aperto Aimo e Nadia?
Nel 1962. Rilevano un posto semplice, un bar: i primi anni c’era anche mia nonna e facevano da mangiare per gli operai della zona. All’epoca non esistevano le grandi scuole per gli Chef, qualcuno studiava in Svizzera o all’estero. Per dieci anni Aimo e Nadia passavano il pomeriggio nel ristorante e studiavano il cibo con dedizione e passione; la sera lo preparavano ai clienti. Pur con un legame particolare alla loro terra, si recavano in ogni angolo d’Italia provando i prodotti riconoscendone il valore tecnico, umano e organolettico: cacciagione, selvaggina, legumi, olio, vino, farro, le verdure e la carne (Chianina). Nessuno è ciò che produce ma sicuramente il prodotto rivela chi lo ha fatto, ne è una emanazione. Più che di amicizia avevano rapporti di complicità gastronomica: gran parte del cibo veniva preparato apposta per loro (ad esempio il prosciutto stagionato).

Chi tra i suoi genitori aveva maggior passione?
Mio padre, senza dubbio. Mia madre è l’esempio di una grande dedizione e condivisione di certi principi saldi. Oggi si parla molto di etica: bene, loro l’hanno sempre avuta.

Rigore nella migliore accezione del termine, professionalità…
In questo rigore c’era anche una grande libertà: il lascito dei miei genitori non è solo tecnico, di impostazione: si vedono molto bene quelli che hanno seguito quella scuola. Si notano meno coloro che hanno seguito la scuola dei miei genitori, prima di tutto umana. Questo stile, in cucina e fuori, ti impone di metterti in gioco fino in fondo come essere umano e allora puoi diventare un cuoco, un sommelier: le persone passate da noi hanno imparato una modalità del fare.

Qual è il vostro piatto storico?
Il principale è lo spaghetto al cipollotto e peperoncino. È un piatto semplice, i miei genitori sono stati bravi a far mangiare pasta e cipolla a tutti: stranieri e italiani. Oggi può avere anche un senso ma negli anni settanta e ottanta la cucina gourmet era proteica. Derivava dalla storia della Francia: carni, pesci, i ragù, le creme, l’olio; una cucina sontuosa. E noi, per converso, la zuppa e una serie di dolci con le verdure. La verdura nei dolci resta tale – insegnamento dei miei genitori -, l’ingrediente non deve perdere la sua qualità che arriva a noi già talmente lavorata che è un peccato distruggerla. Oggi è di moda destrutturare; noi, invece, facciamo un’operazione diversa: esalto la tessitura, la storia del posto d’origine.

Quando si compra un filetto dai fornitori bisogna quindi rispettarne la conformazione?
Esatto. Ci arriva un maialetto di cinta senese al quale è stato fatto un lavoro di asciugatura e frollatura da parte del macellaio, dell’allevatore. Se cambia una cosa anche minima nella filiera noi ce ne accorgiamo subito.

Suo padre è famoso anche per una grande dialettica con i clienti…
Lo scambio con il cliente per me è fondamentale: una volta era mio padre che raccontava i propri territori con il suo vissuto e mentre lo faceva li riattraversava nuovamente. Oggi lo faccio io e unisco la loro voce alla mia conoscenza profonda del prodotto, alla dietologia, alla competenza scientifica che spesso i cuochi ignorano. Mi accorgo subito di una finezza, di un ingrediente.

Quando sono arrivati i primi successi?
I primi riconoscimenti sono arrivati con Luigi Veronelli ed Edoardo Raspelli che hanno scritto di questo posto quando ancora era una trattoria. Poi, a mano a mano, è arrivata una prima stella e articoli in Francia e in Giappone. In particolare i giornalisti giapponesi ci hanno scoperto con grande anticipo: riconoscono da subito il valore della materia prima non troppo lavorata, la freschezza e la naturalezza del cibo. Il massimo riconoscimento è stato il primo articolo uscito sul quotidiano milanese Corriere d’informazione: mio padre se lo ricorda ancora perché titolava “una trattoria toscana ma non è la solita musica”; credo fosse il 1978. Certamente poi la guida Michelin. I miei genitori erano tra i pochissimi che facevano una cucina senza influenza francese perché non era la loro storia. Si sono inventati qualcosa di diverso. Quando loro hanno iniziato, a nessuno importava del prodotto italiano. Alcuni cibi sono addirittura scomparsi per incuria o disinteresse. Poi – anche grazie all’Europa e ai suoi paletti -, alcuni prodotti hanno trovato la loro identità.

Se fossero due cuochi emergenti accetterebbero la spettacolarizzazione dello Chef in tv?
Lo spettacolo non è gastronomia. Ma ha smarcato la figura del cuoco dall’essere identificato per anni come un lavoro degradante. Quindi ben vengano i Masterchef. Il cuoco è una delle poche professioni in cui c’è ancora un ascensore sociale: a prescindere da quello che è il background familiare uno può sperare di raggiungere una certa qualità.

Ci racconta come si è realizzata grazie alla continuità del luogo?
Io lavoro qui da tantissimi anni: ho iniziato facendo delle cose in cucina. “Un figlio di” non è detto che abbia le competenze: io le ho guadagnate sul campo. Ho fatto moltissimi corsi. Mi piace la cucina ma non è il mio unico mondo. Io sto bene in mezzo alle persone, mi piace la cultura, ho trasformato questo posto in una installazione artistica- architettonica, ho portato altri piani culturali: della conoscenza, corsi interni alle persone che lavorano con me: ad esempio per imparare come funziona il nostro cervello con i sapori. Adoro la cultura gastronomica, il suo mondo sociologico, l’attualità, l’arte contemporanea: ho portato qui un mondo-pensiero. La realtà potrebbe avere un piano non evidente, magari ha bisogno di quel silenzio in più perché si possa rivelare. Darti un pane e pomodoro, sorprenderti e spiazzarti di riuscire a trovarlo in un ristorante noto: poi lo assaggi e resti sorpreso, la velatura del pomodoro viene svelata, ogni ingrediente resta se stesso ma si svela; è uno stile. E si declina in modi diversi.

Tutto questo impegno di ricerca e rigore riesce a coniugarsi con una corretta amministrazione? In altre parole si riesce a guadagnare?
Queste attività ad alto livello, proprio per la quantità di “labour”, cura, servizio, attenzione, con altissimi costi è come la haute couture nella moda: hai bisogno di persone, di impegno. Sono vent’anni che gestisco questa attività, è una scelta non fatta in termini economici: sarebbe stato più conveniente fare altro. C’è sicuramente una buona gestione. E devo fare in modo che funzioni. Questa attività, per sopravvivere, deve diversificarsi, espandersi, non basta pensare solo alla somministrazione del cibo. C’è stato, da parte mia, uno studio sul futuro di questo luogo, per cambiare approccio mentale e inventare qualcosa di nuovo. Non esistono formule preconcette: ci si prova, è anche una sfida della vita. Ho fatto un team building da sette persone: io, i mie genitori, Fabio, Alessandro, Nicola e Federico. Credo molto nel team: i due cuochi sono presenti da dieci anni. Non sono semplicemente dei cuochi, sono insieme a me in questa avventura. Abbiamo moltissime richieste di persone che vorrebbero lavorare con noi.

Come hanno reagito i suoi genitori quando hanno realizzato che avrebbe preso lei il “timone”?
Diciamo che è avvenuto non a tavolino ma con gradualità. Io ho cercato di capire a 360gradi questo mondo, ho lavorato qui a lungo. Poi, a un certo punto, ho iniziato ad organizzare eventi all’estero: i miei erano refrattari e stanziali, venendo da altre culture. Li ho costretti a uscire e fare piccole cose e hanno scoperto che poteva funzionare. Poi ho cercato di trasmettere gli elementi culturali: per anni mi sono occupata della comunicazione. Il passaggio dai miei genitori al team della terza generazione è durato circa tre anni.

Ha avuto la percezione del loro orgoglio per la scelta difficile di continuare un percorso intrapreso?
Tutto il mio lavoro, il “sottolavoro”, l’attenzione alle criticità non si vede spesso. Pero’, quando per qualsiasi motivo viene meno, allora gli altri si accorgono che manca qualcosa. Anche il mondo della ristorazione mi considerava una fuori di testa: io stavo poco dentro il sistema. Sono una persona che ha guardato avanti: ho creato e ancora oggi creo una tessitura per permettere agli altri di lavorare in un modo migliore e più gratificante. Per mia madre è stato facile capire il mio lavoro, per mio padre ha richiesto più tempo.

Ha un po’ glissato, le hanno detto “brava”?
Adesso si. Non me l’hanno sempre detto. Adesso dicono brava, ma soprattutto me lo dico io (ride, ndr). Si fidano ciecamente di me. Anche perché non possono fare diversamente, sono una tale rogna!

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