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ABSOLUTE BEGINNERS

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Il nuovo libro di Carlo Massarini è una mappatura a tutto campo delle origini della musica rock e dei suoi affluenti meno conosciuti. Una conversazione a 360 gradi sulle grandi icone rock e su come la musica rappresenta le pulsioni della società. di Guido Biondi

 

“Sto pensando al prossimo progetto, per adesso top secret”. Carlo Massarini guarda sempre al futuro nonostante un passato da divulgatore per le generazioni cresciute con Mister Fantasy, storico programma musicale della Rai negli anni ottanta. Il presente, dopo la chiusura di Ghiaccio Bollente su Rai 5 e le proteste degli spettatori per l’inaspettato congedo, è tutto nella sua nuova trasmissione su Virgin Radio, Absolute Beginners. È anche il titolo del suo ultimo libro pubblicato per Hoepli, ispirato dichiaratamente al film di Julian Temple del 1986. A differenza dei classici volumi di recensioni, talvolta noiosi, in questo libro c’è un filo logico, una narrativa attraverso tre decenni di grande musica.

Un libro divulgativo – per nulla didascalico – per capire le origini, le trasformazioni, i percorsi degli artisti e delle pietre miliari della musica rock dal 1936 al 1969. Il tutto divertendo e incuriosendo il lettore.
In fondo ciò che io faccio – se consideri anche la tv e la radio – è un modo di informare raccontando delle storie in modo spettacolare e piacevole. Io ho cominciato a comprare dischi dalla metà degli anni sessanta, per la precisione con i Beatles nel 1965. Avevo circa dodici anni. Poi ho continuato scoprendo Who, Jimi Hendrix, i Rolling Stones. Nel libro ci sono dei ricordi personali e qualche aneddoto legato ai dischi comprati dai miei genitori. Poi, ovviamente, c’è molta ricerca e molta lettura di libri sull’argomento.

Lei ha incontrato e intervistato alcuni dei protagonisti del periodo d’oro del rock e del pop: Joni Mitchell, Bob Marley, Pink Floyd, Bowie…
Joni Mitchell l’ho incrociata più che incontrata nel 1977 in un viaggio in America. Me l’ha presentata Jaco Pastorius, a sua volta presentato da Patrick Djivas della Premiata Forneria Marconi. C’è una foto che documenta questo incontro di noi tre nel mio libro Dear Mister Fantasy. L’ho poi incontrata durante il suo concerto all’Arena di Verona nel 1983 ma non ho mai avuto il piacere di intervistarla. Con Bob Marley invece ho avuto un incontro approfondito e una bella intervista e anche dei momenti di svago vedendolo giocare a pallone e accompagnandolo sul suo autobus. I Pink Floyd – e lo racconto anche in questo libro – ho avuto il piacere di conoscerli dopo esattamente un mese dal mio primo programma radiofonico. Erano venuti a Roma a suonare e ne ho approfittato per intervistarli. Con Bowie ho fatto una piacevolissima intervista credo nel 1978. I  Rolling Stones non li ho mai incrociati.

Come mai il libro raccoglie dischi pubblicati fino al 1969? È una precisa scelta editoriale o arriverà un altro volume?
C’è in programma di pubblicare il volume successivo sulla musica degli anni settanta, il periodo del quale mi sto occupando adesso su Virgin Radio. All’inizio volevo concentrarmi solo sugli anni sessanta ma poi ho deciso di andare ancora più a ritroso. Volevo mappare le origini del rock. Tracciare anche personaggi misconosciuti appartenenti al rhytm’n’blues che sono legati a doppio filo alla storia del rock. Ciascuno dei protagonisti ha storie divertenti, appassionanti anche tragiche da raccontare ed è stata anche una bella occasione di riascoltare i loro dischi.

Come giudica la musica oggi, la dissoluzione dell’industria musicale ma, soprattutto, la carenza di fenomeni di aggregazione e di artisti capaci di influenzare la cultura odierna? Un mercato globalizzato in mano a personaggi di puro entertainment.
È cambiato un mondo. Le cose non rimangono per sempre le stesse. In particolare l’avvento di internet e delle tecnologie, smartphone, camere digitali ha nettamente cambiato le cose, specialmente negli ultimi vent’anni; è cambiato proprio lo scenario. Se penso a quando andavamo nei negozi specializzati ad aspettare con ansia l’arrivo di un album d’importazione, lo portavi a casa, leggevi i testi, lo ascoltavi con i tuoi amici… Oggi sembra di stare su un altro pianeta. Non si possono mettere in relazione i periodi, non è possibile fare paragoni. Negli anni settanta non c’erano i telefoni cellulari: per intervistare qualcuno in America dovevi chiamare il centralino, prenotarti e poi aspettare a casa di essere richiamato qualche ora dopo. La Cina negli anni settanta era un pianeta sconosciuto; adesso comprano le nostre squadre di calcio… Poi, sulle singole cose, riusciamo a ragionare: le mie emozioni erano più forti allora. Probabilmente per un ragazzo di oggi sarà altrettanto emozionante votare un artista di X Factor, per me un po’ meno. C’è molta buona musica anche oggi, soprattutto di jazz, folk, r’n’b. ma le necessità del mercato sono indubbiamente diverse. Fino agli anni sessanta, periodo nel quale si sono sviluppati gli album, era un mercato fondamentalmente di singoli. Canzoni pop come oggi, spesso one-hit-wonder, successi senza un seguito. I testi oggettivamente sono abbastanza diversi, prima si seguivano con maggiore attenzione. Oggi hanno meno importanza.

Qualche mese fa c’è stata una quasi insurrezione sui social network dopo la chiusra di Ghiaccio bollente, programma molto seguito su Rai 5. Ci sono stati sviluppi? Farà un’altra trasmissione?
Da parte della Rai nessuno sviluppo, anzi, hanno cercato di mettere a tacere l’iniziativa. Non c’è stato nessun messaggio da parte della Rai neppure di riconoscimento del programma e del suo valore. In ogni caso – a livello personale – la petizione degli ascoltatori è stata una testimonianza di grande affetto. A livello professionale questa ha sottolineato un programma colto, non un talent, con la musica trattata con un taglio storico e culturale. La mancanza di un programma del genere è clamorosa in Rai.

Domanda finale sui massimi sistemi: secondo lei c’è stato un disegno per ridimensionare l’influenza della scena musicale, soprattutto la cultura generata dai protagonisti dagli anni settanta in poi, le tematiche sociali, il fenomeno di aggregazione, etc. Oggi la musica pop globale è soprattutto intrattenimento, non disturba, a parte pochi artisti, Radiohead su tutti.
Mi viene difficile pensare che ci sia stata una volontà così organizzata “dall’alto” da parte di qualche “Grande fratello” o del Presidente degli Stati Uniti o altro ancora per un giro di vite teso a ridimensionare il potere alla musica. Gli artisti non sono così manipolabili. È il mercato che influisce: quando le radio trasmettono tutte le stesse canzoni è ovvio che la direzione non potrà essere quella del passato; è musica che fa divertire, innamorare. Viene tagliata fuori la musica che fa riflettere, quella che racconta delle storie. I media – in generale – si dedicano, semplicemente, alla musica di successo immediato, trascurando quella che definisco musica interessante. Se un caporedattore si convince che fa più gioco al suo giornale pubblicare un articolo su Alessandra Amoroso alla fine è una sua scelta e non credo che ci sia dietro una filosofia di anestetizzare la musica cosiddetta colta o sociale. La musica oggi non è più pericolosa, non c’è più chi infiamma come facevano i Doors, non c’è musica che incita all’insurrezione. La musica per fare la rivoluzione nasce in un momento storico nel quale c’è chi vuole farla. Oggi nessuno vuol fare la rivoluzione, al massimo le persone sono un po’ incazzate ma stanno al loro posto e questo si riflette sugli artisti. La società esprime ciò che ha dentro di sé. Anche il rap nasce come musica di libera espressione di gente che non aveva un canale per esprimersi, almeno in origine, se escludiamo la fascia culi, tette e pistole. Hanno ancora una verve di canzone sociale ma tendenzialmente, se vediamo anche in Italia, hanno temi di incazzatura personale, di ansia esistenziale e divertimento ma nulla in confronto a Niggaz With Attitudes. Sono, alla fine, Fabri Fibra e Fedez, ed è difficile definirli capopopolo per la rivoluzione; un po’ tutta la musica oggi rappresenta questa “non ribellione”. Credo che oggi più che ieri sarebbe – invece – una necessità.

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